Giuseppe Lenoci era uno studente di 16 anni morto mentre lavorava, come era morto Lorenzo Perelli tre settimane prima. Sia Giuseppe sia Lorenzo erano studenti in un istituto professionale gestito dai preti che, evidentemente, hanno scoperto il modo di guadagnare fornendo mano d’opera gratuita alle imprese. Del resto, data la propensione dei preti a fare soldi, non risulta difficile immaginare che siano stati validati piani formativi con l’unico scopo di fornire manodopera gratuita a chi ne fa richiesta, magari a fronte di generose, e deducibili fiscalmente, donazioni alla parrocchia.
Giuseppe è un’altra vittima del rapporto perverso tra la scuola e le imprese con la scuola che obbliga gli studenti a lavorare gratuitamente – nel caso di Giuseppe per 180 ore – presso un’azienda che, con la scusa di formarli, li utilizza per accrescere i propri profitti. Si manda un ragazzo di 16 anni a farsi ammazzare sul camioncino di una ditta che lo sfrutta invece di consentirgli di studiare e accrescere la propria cultura.
La formazione pratica va fatta nelle aule e nei laboratori scolastici, senza dover rispettare i ritmi imposti dalla produzione e dal profitto, che sono diversi dai tempi necessari all’apprendimento e allo sviluppo di una manualità. Forse qualcuno pensa che i padroni siano così sensibili alle esigenze educative di farsi carico, senza alcun guadagno, di formare degli studenti? O non è più serio dire che vengono sfruttati degli studenti cui non si corrisponde un salario e a cui si affidano le mansioni di bassa manovalanza, che non richiedono alcuna qualificazione e che non serviranno a nulla per formarli?
Giuseppe stava facendo uno stage presso la Termoservicegas di Fermo. Era su un furgone della ditta, guidato da un altro operaio, a più di 100 Km di distanza dal posto dove avrebbe dovuto fare lo stage mentre andava a riparare la caldaia a casa di una famiglia di Serra dè Conti (AN). Che cosa avrebbe dovuto imparare uno studente nelle tre ore in cui veniva portato, con il furgone aziendale, ad eseguire un intervento presso un cliente della ditta? A guardare l’altro operaio che guidava? Avrebbe fatto formazione anche la famiglia presso cui andava a fare la manutenzione? E come mai, dei soldi che il cliente pagava per l’intervento, lo studente non avrebbe visto un centesimo? Un’altra vittima del profitto che subordina al guadagno del padrone le vite degli operai.
In Italia ci sono stati, nel 2021, 555.236 infortuni sul lavoro. Più di mezzo milione di persone hanno subito danni, lesioni permanenti, in qualche caso sono morte: un tributo in sangue pagato annualmente al profitto e considerato “normale” da governo, padroni e sindacati. L’inesistente cultura dei sindacati sulla sicurezza sul lavoro è dimostrata dalle dichiarazioni sull’omicidio di Giuseppe fatte dai responsabili regionali di CGIL, CISL e UIL. In una nota Daniela Barbaresi, segretaria Generale CGIL Marche e Antonio Renga segretario Generale FLC CGIL Marche, parlano di infortunio “in itinere”, dimostrando di non sapere la differenza tra infortunio “in itinere” (che avviene mentre uno si reca o torna dal lavoro a casa) e infortunio “in strada” (che avviene mentre uno sta lavorando all’esterno del proprio posto di lavoro). Anche tutti gli altri politici e sindacalisti, intervenuti per esprimere un peloso cordoglio alla famiglia per un lutto di cui sono responsabili, hanno fatto finta che non sia morto sul lavoro ma il problema sia “un incidente stradale”.
Forse è per questo che gli infortuni “in strada” come quelli degli operai dell’ANAS che fanno manutenzione sulle strade e vengono travolti da un’autovettura, degli operai delle ferrovie travolti dai treni, degli addetti della logistica, dei riders e dei lavoratori morti come Giuseppe sono aumentati, nel 2021, del 21,6% rispetto all’anno prima. Il settore che si occupa di trasporto e magazzinaggio, cioè la logistica, è quello che ha registrato, nel 2021, la maggior percentuale di infortuni mortali: il 15,6% del totale degli infortuni mortali censiti dall’INAIL.
Questi oltretutto sono i dati elaborati dall’INAIL, che riguardano solo i lavoratori assicurati con l’ente. Ci sono molti lavoratori che non lo sono: oltre ai lavoratori in nero e “grigi”, non viene incluso chi lavora in proprio o dipende da altri enti previdenziali. Tanto per fare un esempio, in agricoltura 158 persone sono morte schiacciate dal trattore nel 2021, in parte conteggiati dall’INAIL, in parte no. Per avere un’idea delle dimensioni di questa parte non censita è utile l’ottimo lavoro fatto da Carlo Soricelli che registra, con l’Osservatorio Indipendente sulle Morti sul Lavoro, i decessi che avvengono quotidianamente per l’attività lavorativa. Mentre l’INAIL dichiara che, nel 2021, sono morte sul lavoro 1.221 persone, l’Osservatorio denuncia 1.404 decessi. Nonostante questa sottovalutazione, l’Italia è il paese che ha il record di morti sul lavoro nell’Unione Europea: ogni anno muoiono 2,5 lavoratori ogni 100.000 in Italia, contro la media di 1,9 in tutti gli altri paesi UE.
Per dirla tutta, va anche segnalata la scarsa percezione del pericolo da parte dei lavoratori stessi. Fa parte della storia delle relazioni industriali in Italia quanto avveniva al reparto verniciature della FIAT dove, per le vernici usate, quasi tutti i lavoratori morivano di cancro. La FLM (il sindacato unitario dei metalmeccanici), invece di chiedere maggior sicurezza, ottenne un aumento salariale, “l’Indennità verniciatura”, con un aumento del 10% della retribuzione globale per chi lavorava in quel reparto. Nonostante la quasi certezza di morire si tumore, erano molte le richieste per andare a lavorare lì.
Che non sia un problema legato solo al periodo storico lo si vede dagli operai edili che lavorano sulle impalcature. C’è l’obbligo di indossare il casco e c’è anche un cartello, all’entrata di ogni cantiere, che lo ricorda. In Italia non lo indossa quasi nessuno ed è anche per questo che gli operai edili hanno un’aspettativa di vita inferiore di sette anni rispetto agli altri lavoratori. Il caso delle impalcature è emblematico anche per un altro aspetto: quello dei controlli. Quella sui ponteggi è un’attività svolta sotto gli occhi di tutti, dove anche un vigile urbano potrebbe contestare il mancato rispetto della norma ed invece non viene comminata nessuna sanzione alle ditte che non controllano il mancato rispetto della prescrizione.
Quando vengono fatti i controlli sulla sicurezza sul lavoro, il 70% delle aziende risulta non a norma e così… hanno pensato di ridurre i controlli.
In 10 anni, dal 2010 al 2020, il numero degli ispettori che si occupano a vario titolo di vigilanza è diminuito del 30%. Durante la sindemia i controlli sulle imprese sono stati quasi inesistenti ma, anche volendo tener conto dei dati precedenti, i controlli INPS sulle imprese sono passati da 90.000 nel 2010 a 15.000 nel 2019 e i controlli dell’Ispettorato del Lavoro, nello stesso periodo, sono diminuiti del 25%. In Italia un imprenditore edile rischia di essere controllato una sola volta in vent’anni, quelli impegnati in altri settori di attività rischiano controlli con ancora minor frequenza.
A voler peggiorare ancora la situazione ci ha pensato “il governo dei migliori” dove Brunetta, ministro per la Pubblica Amministrazione, ha dichiarato che, nell’esercizio delle deleghe per la legge sulla concorrenza, inserirà una norma che obblighi gli ispettori a telefonare prima alle aziende, concordando le visite ispettive. È facile immaginare che, se si avvisa prima di un’ispezione, i macchinari manomessi verranno risistemati e i lavoratori in nero verranno lasciati a casa.
Il Covid poi, ha accentuato questa situazione. Oltre all’inesistenza dei controlli é peggiorato, di molto, il rischio per gli addetti al settore sanitario. Essere contagiati è stato considerato un infortunio sul lavoro ma solo per quei lavoratori esposti professionalmente alla malattia, senza considerare per nulla quelli che si sono ammalati sul posto di lavoro per la mancanza totale delle misure di prevenzione operate dal datore di lavoro. Per questo motivo due anni fa i sanitari e gli addetti alle RSA sono stati la categoria con il maggior numero di infortuni mortali.
Le malattie professionali – che sono le malattie che uno contrae per l’esposizione professionale prolungata nel tempo a un fattore patogeno – sono conteggiate separatamente dagli infortuni. La malattie professionali più frequenti sono i tumori per esposizione a sostanze cancerogene, ipoacusie per esposizione al rumore, ma, soprattutto, disturbi muscoloscheletrici per movimentazione manuale dei carichi o posture incongrue. Con la sindemia e con l’impossibilità di fare visite e controlli sono scese le denunce per malattie professionali. Nei tre anni precedenti erano aumentate progressivamente anno dopo anno: nel 2019 erano arrivate a 61.201.
Non si può parlare delle vittime sul lavoro senza parlare di amianto. Dal 1992 in Italia c’è una legge che ne vieta la produzione e il commercio ma non prevede alcun obbligo di rimozione per l’amianto già presente. L’Italia era il principale produttore di manufatti contenenti amianto in Europa e l’amianto è stato largamente utilizzato nell’edilizia. In Italia sono ancora in uso circa 32 milioni di tonnellate di amianto compatto e 8 milioni di tonnellate di amianto friabile. Chi è esposto all’amianto sviluppa un tumore specifico – il mesotelioma – l’esposizione però causa anche altri tumori. Il problema è che tra l’esposizione all’amianto e la comparsa del tumore c’è un periodo di latenza molto lungo, tra i 20 e i 50 anni. L’amianto è responsabile di circa la metà dei tumori correlati al lavoro. Da notare infine che, tra i tanti bonus per le ristrutturazioni edilizie, non c’è stata nessuna previsione di bonus per la bonifica dell’amianto.
Così nell’indifferenza totale si continua a morire: nel 2020 sono morte a causa dell’amianto circa 7.000 persone ed il numero è in costante aumento. Nella stessa indifferenza si lascia l’amianto nelle scuole. Sono 350.000 gli studenti e 50.000 fra i docenti e personale ATA, che studiano e lavorano nelle 2.400 scuole italiane costruite usando questo materiale. Tanto che, mentre le vittime nelle prime fasi erano soprattutto operai che avevano lavorato con l’amianto, oggi c’è un numero significativo di personale impiegato nelle scuole che sviluppa patologie correlate all’esposizione all’amianto.
Questa è la situazione della sicurezza sul lavoro in Italia e, in questa situazione, si mandano gli studenti, senza alcun diritto, estremamente ricattabili, a rischiare la vita per il profitto. Da quando è stata introdotta l’alternanza scuola lavoro, il numero degli infortuni avvenuti ai danni di lavoratori con meno di 19 anni è progressivamente aumentato, anno dopo anno.
In basa alle statistiche dell’INAIL (che, ricordiamo, non comprendono tutti i lavoratori) la percentuale di infortuni che ha visto coinvolti giovani con meno di 19 anni è aumentata progressivamente. Si è passati dal 13,45% sul totale degli infortuni nel 2016 al 14,32% del 2019 (prima della sindemia). Nel 2019 ci sono stati 92.363 giovani, al di sotto dei 19 anni, che sono rimasti vittime di infortuni sul posto di lavoro e di questi 12 sono morti.
L’alternanza scuola lavoro nelle sue varie forme (PCTO, stage, tirocinio) va abolita, non riformata! Se proprio si vuole favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di quelli che oggi sono studenti e domani saranno precari, si faccia formazione sulla sicurezza sul lavoro per consentirgli di avere gli strumenti per tutelare la propria salute da una società non si fa alcuno scrupolo nel sacrificare delle giovani vite al dio del profitto. I dati degli infortuni e delle morti sul lavoro sono un preciso indice del livello dello sfruttamento, ovunque ed in qualunque circostanza avvengano L’indignazione non basta, come non bastano i controlli: il rifiuto dell’insicurezza sul lavoro deve diventare una delle parole d’ordine di chiunque lotti per l’emancipazione dei lavoratori.
Gruppo Anarchico Bakunin – F.A.I. Roma e Lazio